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28
Set

Baaria

baaria“E’ il racconto di uomini con la u minuscola che vivono la Storia con la S maiuscola, ma non direttamente, ne vivono soltanto gli echi lontani”

In una sequenza tra le più belle dell’ultimo film di Peppuccio Tornatore, «Baarìa», il sindacalista dei braccianti che fa da protagonista si avvia, capo chino e preoccupato, verso l’auto che lo condurrà a Palermo per una manifestazione. La moglie lo saluta in ansia e gli raccomanda di star attento, perché l’aria è di violenze. Sul marciapiede opposto cammina un carabiniere vicino di casa e anche lui ha una donna che lo implora di tornare sano e salvo. È l’8 luglio del 1960, alla vigilia del boom economico l’Italia si lacera sul governo di Tambroni, scioperi e manifestazioni, la polizia che spara a Reggio Emilia e in Sicilia, morti, disordini, caos.

A sera la macchina da presa del regista ci restituisce i due uomini, entrambi feriti, entrambi assistiti dalle famiglie, nemici in piazza, uguali nel dolore. Andati ad affrontare la Storia, uno per scelta ideale, l’altro per dovere, ripiegano sulla vita. Il mondo, grande e terribile, li spazza via, l’amore e la dignità dei loro cari li raccolgono e confortano.
Fa molto effetto vedere il kolossal di Tornatore, premio Oscar per «Nuovo Cinema Paradiso», in questi giorni italiani. Non solo per la passione con cui i personaggi affrontano la politica, il sindacalista per cambiar tutto e portare il Sud dal Medio Evo al futuro, i suoi avversari attenti ai bisogni delle persone, un posto di lavoro, la tv in bianco e nero con Mina e il povero Mike, le ferie al mare.

Molti commentatori hanno discusso del valore politico della pellicola, alcuni disperdendosi dietro la fola delle solite ossessioni (Medusa, la casa produttrice diretta da Giampaolo Letta, fa capo a Mediaset). Sono idiozie sulle quali non varrebbe la pena di soffermarsi, se non servissero a distrarre da «Baarìa». Che si presenta allo spettatore come un film «politico»; dopo tutto il protagonista Peppino è un sindacalista del Pci, i suoi avversari assessori della Dc, e vediamo comizi, occupazioni delle terre incolte, scontri nell’aula del Consiglio comunale.
I nostri lettori che andranno a vedere il film non si lascino incantare. «Baarìa» è un film, felice e nostalgico, scanzonato e malinconico come sempre il miglior Tornatore, sul senso della vita, il passare delle generazioni e del tempo, la forza della famiglia, il maturare da ragazzo a uomo, capace infine di riconoscere errori e saggezza dei padri.

A voler giudicare il secolo di «Baarìa», il villaggio di Bagheria nei pressi di Palermo, con la contabilità dei faziosi alla moda – io ho ragione, tutti voi torto! – si perde la metamorfosi civile dell’Italia. Il bracciante Peppino ha ragione quando invoca la riforma agraria per i contadini che fanno la fame come servi della gleba medievali, ma il Pci ha torto a cacciare i dissidenti come spioni. I suoi avversari han torto a non opporsi alla mafia, ma ragione nel temere l’Urss e favorire lo sviluppo economico. Alla fine è la comunità che cresce insieme, con persone e idee differenti, e insieme affronta il futuro.
Viviamo oggi in una perenne batracomiomachia che, tra il premier Berlusconi e i suoi oppositori radicali non vorrebbe lasciar viva nessuna posizione indipendente, tutti noi schierati e impettiti come i pupi siciliani che Tornatore rievoca incantando i bambini, o con Orlando o con il Saraceno. Tutto il nostro agire ridotto a match, dentro o fuori. Il film – con umiltà – raccoglie invece l’invito dello storico Odo Marquard, non giudichiamo uomini, donne e idee del passato come fossimo giudici di un tribunale petulante, condannando e assolvendo senza compassione e ragione.

Tornatore schiva la trappola. I poveri che sognano il pane con le panelle, le frittelle di ceci, i ricchi che al cinema siedono nei palchi, il matto che contrabbanda finti dollari in piazza, la carismatica mendicante, il deputato bolso, il professore guardone, l’assessore moderato, la fidanzata di Peppino che impara a ballare, hanno tutti almeno un gesto di vita che sa riscattarli.
Il futuro distrugge il passato ma non lo cancella nell’oblio, nessuna epoca ha solo male. La famiglia, l’amicizia, l’amore, la cultura, la dolcezza, la compassione vincono oppressione e violenza, dopo dolore e frustrazione. Vero, dove oggi sorgono brutte case profumavano un tempo giardini di aranci e limoni: ma i bambini si contendevano famelici una cipolla a cena. Vero, quanta grazia nei giochi e nei ricami delle fanciulle di allora, ma quanta oppressione nel vivere segregate in casa come a Kabul. Se ci vuole pena per distillare la saggezza, «Baarìa» fa piazza pulita delle polemiche da galoppini. Il boom economico distrusse l’arcaica civiltà contadina ma emancipò, con le utilitarie, il lavoro, la libertà scanzonata, milioni di italiani. Senza la riforma agraria per cui Peppino si batte sulle rocciose Madonie, i braccianti non avrebbero mai avuto la 500, ma una volta che la comprano vanno finalmente al mare e non più in corteo.

Una vittoria per chi? Una sconfitta per chi? Il regista – ora uomo fatto – sa che non serve dirlo. Finita la furia del presente restano l’amore di una donna, la forza della famiglia, la dignità del lavoro – il padre che nell’accompagnarlo al treno per Roma dove imparerà il mestiere del cinema, gli ripete il remoto mantra di origine spagnola «Va a buscarti il pane».

Nella commovente scena finale passato e presente si incontrano in due bambini, uno scugnizzo e uno scolaro, che da stagioni diverse si sorpassano nel tempo, mentre sulla strada polverosa girano le trottole, «strummule» in dialetto, e la mosca che un artigiano ha nascosto dentro il legno vola via, viva e felice.
Non siamo migliori del nostro passato, è la morale di Tornatore, ma neppure peggiori. Come i nostri padri faremo il bene tutte le volte che lavoreremo per «Baarìa», la comunità, e il male quando ci disperderemo nell’egoismo. Presto le divisioni acide dei talk show tv di oggi ci appariranno goffe e grottesche come le baruffe politiche di allora, urlate in strada da gracchianti altoparlanti. Come per i «baarioti» ci salverà la dignità di sperare insieme, provando a colpire con un sasso fortunato le tre rocce magiche della rupe.

«Baarìa» ha nostalgia non di un’Italia povera e lacera, la fame non è ecologica, ma di un’Italia che voleva vivere meglio, allegra, sfrontata, irriducibile, comunque andasse a votare nelle sbilenche cabine dei seggi elettorali. Si scrive «Baarìa» e si legge Italia, nella speranza che anche la mosca nascosta nella nostra anima nazionale sia viva e felice e pronta di nuovo a volare. Un film bello, un film «politico» solo in quanto la politica può ancora – deve ancora – essere speranza.